Un progressivo smarrimento della democrazia e della pacifica convivenza, 
per ritornare alla Bestia dell'intolleranza ?



La memoria dell'Olocausto e gli italiani
di Paolo Portone

Anni fa, lo scrittore ex deportato nei lager nazisti, Primo Levi, autore di "Se questo è un uomo", libro shock nel quale egli rievocava la dolorosa esperienza ad Auschwitz, poneva in guardia l'opulenta, civile e smemorata società italiana dal pericolo sempre presente rappresentato dal razzismo. La convinzione che "ogni straniero è nemico" - scriveva Levi - "giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager".

Questa convinzione accompagnò sino agli ultimi istanti della sua vita lo scrittore italiano, anzi, si può dire con certezza che essa fu all'origine di quel dramma interiore che spinse Primo Levi a togliersi la vita. La consapevolezza dell'incommensurabilità del male sofferto e d'altro canto l'obbligo morale di trasmetterne la memoria, fin dai primi giorni del dopoguerra, rappresentarono una costante preoccupazione per Primo Levi . Tramandare alla posterità la memoria dell'olocausto fu perciò il compito della sua vita, il motivo principale che lo portò a scrivere libri. Nonostante tale impegno, tuttavia, Levi fu sempre conscio della limitatezza dei suoi mezzi, e soprattutto dell'inevitabile oblio che il trascorrere degli anni comporta per le cose umane, condizioni che non lo rendevano ottimista circa la definitiva scomparsa dall'orizzonte storico della Bestia. 

Tra i pensieri neri che lo assillavano negli ultimi tempi v'era ,infatti, la domanda se quanto patito era già tornato o fosse sul punto di "ritornare". E purtroppo, noi che gli siamo sopravvissuti, non possiamo dargli torto.
Basti infatti dare uno sguardo alle cronache italiane ed europee dell'ultimo decennio del XX secolo, per rendersi conto che i timori di Levi erano lungi dall'essere infondati: l'aumento esponenziale delle violenze a sfondo razziale e xenofobo, le profanazioni dei cimiteri ebraici, le aggressioni anche solo verbali contro i diversi, costituiscono la riprova più eloquente che il male assoluto provato dallo scrittore d'origine ebraica è quanto mai vivo nel cuore del civilissimo Occidente cristianizzato.

Aggressione, intemperanze, i siti internet (e non solo i siti) in cui si invoca a gran voce lo sterminio degli immigrati, lo stillicidio di violenze verbali da parte di esponenti politici, le campagne mediatiche orchestrate per ottenere riscontro di pubblico, facendo leva sui più logori stereotipi razziali, religiosi e sessuali, stanno ad indicare quel progressivo smarrimento della democrazia e della pacifica convivenza, propedeutico all'avvento della Bestia dell'intolleranza.
Se allo stadio, ogni domenica, i giocatori di colore che militano nel nostro campionato sono bersaglio delle invettive razziste delle tifoserie- terrone, romane, padane- ( "Scimmia" è l'epiteto rivolto dagli ultras veronesi e laziali al giocatore di colore Seedorf) se nelle scuole i corridoi e i bagni sono imbrattati di scritte inneggianti al Fuhrer, alle Schutz Staffen, e contro gli "ebrei bavosi" e gli "sporchi negri", torna d'estrema attualità la domanda che Levi si poneva in tempi non così sospetti come gli attuali: "Che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?".

Ebbene, la prima cosa da farsi ci è suggerita proprio dal sacrificio dei martiri del nazismo, da quanti cioè si opposero alla barbarie hitleriana continuando a fare opera di testimonianza evangelica, rifiutandosi nella pratica di prestare servizio nella Wermacht e opponendosi con la parola di Cristo all'ideologia razzista del III Reich.
Il martirio dei Bibelforscher (i 2000 seguaci del movimento geoviano  condannati a morte perchè si rifiutarono di prestare il servizio militare. Ndr) e di tutti quanti coloro che perirono nei campi di sterminio insieme agli ebrei, agli slavi e agli zingari, chiede innanzitutto che sia salvato il ricordo dell'Olocausto lottando contro i revisionisti e i negazionisti, cioè contro quegli storici ed esponenti politici che definiscono la politica di sterminio condotta dei nazisti un "dettaglio" nel più generale orrore del II conflitto mondiale, spingendosi sino a negare l'esistenza stessa dei campi di concentramento.

Accanto a questa battaglia, diremmo della memoria, un'altra non meno ardua deve essere combattuta, quella cioè contro la mentalità che giustificò i campi di concentramento e che, come abbiamo cercato di dimostrare, è ancora ben viva nella nostra società. I semi dell'intolleranza trovano oggi un terreno assai fertile nelle oscure parole di quei leader che parlano di eccesso di stranieri nella civilissima Europa, nei richiami di quegli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche che invitano le autorità laiche a selezionare gli ingressi nel nostro paese in base alla confessione professata, per difendere "l'identità" italiana , finanche in quel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, cioè dell'ex Sant'Uffizio, intitolato "Dominus Jesus", nel quale si afferma, senza mezzi termini, che "Solo nell'unica e universale chiesa cattolica ci può essere salvezza", mentre i seguaci delle altre religioni possono sì ricevere la grazia divina, ma si troveranno sempre in una situazione "oggettivamente deficitaria" rispetto a credenti cattolici, gli unici a poter disporre "della pienezza dei mezzi salvifici". 

Eppure, in Italia, ci si continua a gongolare nell'idea di una nostra presunta tolleranza ab origine, di un atteggiamento geneticamente portato al rispetto di altri popoli, culture e religioni, di una bonomia e di un fair play verso i diversi senza eguali nel resto del pianeta. Uno stereotipo antirazzista, educato e tollerante che come tutti i luoghi comuni, mostra evidenti forzature soprattutto se si guarda alle recenti trasformazioni che hanno portato l'Italia ad occupare i primi posti tra le potenze industrializzate, e alla sua storia nel secolo che sta per chiudersi, in particolare alla triste esperienza del ventennio fascista.
Fare i conti con l'infezione latente dell'intolleranza è forse nel nostro paese un'operazione più difficile che altrove, anche della stessa Germania. Una difficoltà che nasce dalla presunzione di essere migliori di altri e dal peso di una memoria fin troppo edulcorata.

La sostanziale continuità dello Stato, dopo la caduta del regime fascista, l'azione mediatrice svolta dalla Chiesa di Roma, insieme all'oggettiva minore intensità del fenomeno persecutorio contro le minoranze etniche e religiose nel nostro paese, hanno contribuito alla rimozione delle responsabilità collettive durante la dittatura mussoliniana, impedendo, nonostante la retorica antirazzista dell'età repubblicana, una effettiva resa dei conti con il nostro passato. Un vero e salutare esame di coscienza non è stato possibile perché si ebbe interesse ad avvalorare da subito la falsa e assolutoria convinzione di essere stati trascinati in un conflitto tremendo da un alleato più potente e più feroce, analisi che sospendeva qualsiasi giudizio sul nostro operato, trasferendo su altri responsabilità che furono unicamente nostre. Lo storico tedesco Lutz Klinkhammer, osservava, in un saggio di qualche anno fa, come la società italiana abbia, immediatamente dopo il conflitto, dimostrato una certa difficoltà a fare i conti con "le proprie responsabilità", attuando "un meccanismo di vittimizzazione" attraverso il quale autoassolversi dalle atrocità compiute dal regime fascista in Libia, in Etiopia e in territorio yugoslavo.

In Italia, per troppo tempo, ci si è lavati la coscienza con la favola del buon fante italiano cui faceva da pendant il mito del feroce soldato tedesco: comodo stereotipo che, pur rispondendo in parte a verità, cancellava dalla memoria collettiva il ricordo delle offese inflitte ad altri popoli in nome della superiore "civiltà italiana e cattolica". Sotto questo aspetto, i nostri ex alleati hanno dimostrato di essere assai più disponibili nell'ammettere le loro responsabilità nello scatenamento del II conflitto mondiale, e nel denunciare, entro certi limiti, gli orrori del nazismo. Sensibilità che ha permesso, nei sessant'anni seguiti alla fine della guerra, la nascita di un robusto sentimento pacifista nella popolazione tedesca, in specie dell'ex Germania Occidentale, e di una reale cultura dell'accoglienza verso i profughi e gli immigrati.

Da noi, affermava qualche anno fa il magistrato torinese Pier Paolo Rivello, "c'è pochissima stampa, pochissima eco delle sentenze che ancora si danno contro gli scherani nazifascisti". Una smania di oblio che ha subìto un'improvvisa accelerazione con l'avvento della cosiddetta "Seconda Repubblica", i cui "padri" fondatori hanno sentito l'esigenza di riscrivere una storia unitaria degli italiani, al di là delle distinzioni fra partigiani e repubblichini, che tenesse presente soprattutto conto della zona grigia costituita da quanti durante il conflitto non vollero schierarsi con nessuno dei due contendenti, i "pacifisti" come li ha definiti, bontà sua, lo storico Aurelio Lepre (cfr. "La storia della repubblica di Mussolini. Salò: il tempo dell'odio e della violenza" Mondadori editore). In particolare, in alcuni si è sentita l'urgenza di rivalutare, in un'ottica di riconciliazione nazionale, quanti si sacrificarono per lo stesso ideale di patria e per la difesa dei valori nazionali, sebbene da "posizioni diverse". Un'esigenza avallata da importanti esponenti dello Stato che, con le loro pubbliche esternazioni sui "ragazzi di Salò" che sbagliarono, sull'equivalenza tra campi di sterminio nazisti e foibe slovene, hanno indicato la via maestra alla revisione del giudizio storico sul fascismo, superando gli angusti confini del politicamente corretto di 60 anni e passa di democrazia repubblicana.

Eppure, ricordava l'ex presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non si può conciliare tutto "dicendo che delle cose negative e accertate diventano positive per trovare un accordo" (cfr. "Il Messaggero" 15.11.19).
Se il nazismo affermava nei suoi programmi la sottomissione del pianeta alla superiore razza ariana e l'eliminazione della gegen rasse giudaica, non si può passare sotto silenzio la incomparabile mostruosità hitleriana, magari associandola, e dunque sminuendola , ad altri orrori della storia del Novecento, analoghi per intensità persecutoria, ma inferiori alla barbarie teorizzata e messa in pratica dalle camicie brune.
Nondimeno, è assai pericoloso, oltre che mistificatorio, attenuare le responsabilità storiche del regime fascista, soltanto perché esso sorse e si sviluppò in un paese economicamente e politicamente arretrato come il nostro. E' bene rammentare alle giovani generazioni che nel codice genetico del movimento guidato da Mussolini erano presenti, fin dall'inizio, l'intolleranza, la violenza e il razzismo. Quando il regime di Mussolini promulgò, nel 1938, le famigerate leggi razziali, queste non furono scritte per far piacere al potente alleato tedesco, ma al contrario s'inserirono in una consolidata tradizione giudeofoba di matrice cattolica, basti ricordare il "razzismo spiritualizzato" di padre Agostino Gemelli, e il "razzismo biologico" che ebbe nel patologo Nicola Pende e nel fisiologo Sabato Visco - quest'ultimo ancora preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell'Università di Roma nel 1963- i massimi teorizzatori. 

Ben venga il superamento degli steccati in nome della concordia nazionale, si dedichi pure a Giuseppe Bottai una piazza della capitale, a patto però che si riconoscano le proprie responsabilità e che si faccia pubblica ammenda delle nequizie compiute dall'Italia fascista prima e durante il secondo conflitto mondiale. Diversamente, la volontà di superare le contrapposizioni approderà, suo malgrado, al riconoscimento e alla legittimazione della Bestia dell'intolleranza. A Bottai si potranno, se lo si riterrà opportuno, dedicare piazze e strade nella "nuova" repubblica, a condizione che si rammenti nelle scuole che egli fu, in qualità di ministro dell'istruzione, l'ideatore dell'epurazione dai manuali scolastici di tutti i riferimenti alla "degenerata cultura ebraica", che a lui sono da attribuirsi i provvedimenti di espulsione dall'istruzione per studenti e professori "giudei", e che sempre a lui si deve la circolare ministeriale che impose l'acquisto e la lettura in tutte le scuole del Regno della "Difesa della razza", la rivista di propaganda del razzismo biologico italiano, di cui segretario di redazione fu il giovane Giorgio Almirante.

Con buona pace del mito del Belpaese, anche in Italia durante il fascismo, con la complicità delle gerarchie cattoliche, fu attuata una campagna di discriminazione razziale che garantiva ai soli "italiani", ariani e cattolici, l'accesso ai diritti. Pio XII, che non mancò di sostenere direttamente la causa di regimi nazionalintegralisti, come la dittatura instaurata dopo la Guerra Civile spagnola dal caudillo Francisco Franco, o lo stato fantoccio croato del duce Ante Pavelic, non si pronunciò mai pubblicamente in difesa degli ebrei perseguitati, evitando di render nota l'enciclica in cui si condannava l'antisemitismo scritta dal suo predecessore, Pio XI. Sotto il suo pontificato le gerarchie ecclesiastiche nella quasi totalità, in Italia e in Europa, mantennero un profilo assai basso nella testimonianza cristica della fratellanza, accettando e in taluni casi facendosi addirittura complici dell'efferato dominio della Bestia. La condivisione del comune nemico rappresentato dal "dragone comunista" e dalla lobby anticristica "demo-plutarchica-giudaica", spinse la Chiesa cattolica ad accettare il punto di vista del potere nazifascista, senza nessuna reale opposizione ai suoi disegni di dominio, di discriminazione e di sterminio.

Si scorrano i volumi di quegli anni della prestigiosa rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica", e si comprenderanno le ragioni per cui la civilissima e cristianissima Europa potè scivolare nel baratro della barbarie. Leggendo quegli articoli grondanti del più becero antigiudaismo di marca inquisitoriale, si capirà come sia potuto accadere che nella tollerante Italia, sede del Vaticano, alcune migliaia di ebrei furono costretti dall'oggi al domani ad abbandonare le scuole, del perché il "Pastore Angelico" Pacelli non intervenne per denunciare l'infamità delle leggi razziali, se non a proposito dell'articolo sull'invalidamento dei matrimoni fra cattolici ed ebrei, conditio sine qua non per le auspicate conversioni dei miscredenti.

Razzismo all'italiana che ritroviamo , appena ammantato dalla suprema missione civilizzatrice delle genti italiche e cattoliche, come cemento ideologico nell'avventura mussoliniana in terra d'Africa nel 1935, frutto avvelenato di un cinquantennio di retorica colonialista ("Nel caldo dei deserti e tra l'arena ardente insegneremo a vivere ai negri civilmente", cantavano i nostri fanti durante l'occupazione di Massaua, in Eritrea, nel 1895) che, accanto ad alcune pagine degne di memoria, si macchiò di crimini contro le popolazioni indigene alla stregua delle altre potenze coloniali europee: dalle fucilazioni di massa contro i patrioti, ai gas asfissianti usati contro l'esercito del governo legittimo di Hailè Selassiè, passando per i proclami delle autorità coloniali che proibivano ai nostri soldati di fraternizzare con le donne indigene per non sminuire la "razza italica". 

Se siamo oggi così impreparati dinanzi al risorgere della Bestia dell'intolleranza, e perché riteniamo, a torto, di essere stati meno feroci dei nostri alleati, di non aver esagerato contro i nostri nemici, di esserci sempre comportati da veri "latini" -pizza, mandolino e buoni sentimenti- cullandoci in uno stereotipo consolatorio e assolutorio, che minimizza i difetti di una nazione assoggettata ad una dittatura la cui ideologia e i cui interessi portavano in sé i germi del razzismo, dell'imperialismo e della guerra . Ancora circola la falsa opinione, anch'essa consolatoria, di un Mussolini fondamentalmente pacifista, condotto nel baratro della guerra da improvvidi consiglieri e dal cieco destino. Seppure in scala ridotta, furono gli uomini di Mussolini  per primi a sperimentare l'annichilimento delle opposizioni da Matteotti ad Amendola, da Gobetti a Gramsci passando per Don Sturzo e i fratelli Rosselli, a utilizzare la violenza come strumento di controllo politico e sociale, ad avvalersi del pregiudizio razziale come valvola di sfogo per le frustrazioni di un ceto economico afflitto da sindrome d'inferiorità nei confronti delle potenze imperiali occidentali e come riscatto per i milioni di "cafoni", costretti a cercare fortuna all'estero.
 
Le deportazioni in massa degli oppositori libici, negli anni precedenti lo scoppio del II conflitto mondiale, non furono un incidente di percorso ma frutto di una perfetta pianificazione che ebbe come scopo l'annichilimento dei patrioti africani, e questo molto tempo prima dell'Olocausto. Lo stesso vale per le campagne terroristiche condotte dal regime nelle terre di confine con il regno Yugoslavo . Nella primavera del 1928, i fascisti compirono una spedizione punitiva contro la minoranza slava di Gorizia che si era rifiutata di votare in occasione del plebiscito. I contadini locali reagirono alle violenze e cinque furono arrestati. Tra di loro Vladimiro Gortan di 25 anni fu condannato a morte per un omicidio che, in realtà, era stato compiuto dalla milizia fascista. Gli altri quattro subirono la condanna a trent'anni di reclusione. Al termine dell'udienza la moglie di Gortan, che era incinta, fu aggredita da un gerarca che la colpì con calci al ventre. 

Un anno dopo altri quattro goriziani della minoranza slava furono fucilati con l'accusa di complotto comunista. L'agenzia Stefani, nel dare la notizia, vantò il comportamento del plotone di esecuzione, composto di camicie nere, un comportamento "superbo di fermezza e di impassibilità".
Nessun elemento storicamente fondato può oggi farci parlare di un Mussolini meno feroce, nella sua volontà di potenza, del suo alleato Hitler. L'8 luglio del 1936, nel corso della campagna d'Etiopia, Mussolini spediva un telegramma al generale Graziani con il quale lo esortava "a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici" poiché "senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga" (cfr. Del Boca, "I gas di Mussolini. Il Fascismo e la guerra d'Etiopia", Editori Riuniti).
Occupata Addis Abeba, gli italiani instaurano un vero e proprio regime del terrore sotto il quale perirono numerosi patrioti abissini. Furono istruiti processi farsa in cui non erano concessi i normali termini di difesa agli accusati. "Questa è una turlupinatura troppo grossa" scriveva l'inviato speciale del "Corriere della sera" nel suo diario segreto, aggiungendo che la giustizia degli occupanti è una "infamia senza nome" perché colpisce "innocenti sottoposti a una procedura per essi incomprensibile, che li porta a condanne atroci senza che vengono neppure a sapere perché sono stati condannati". 
Una parvenza di legalità che venne totalmente meno quando, nel febbraio del 1937, dopo l'attentato al viceré Graziani, gli invasori italiani si lasciarono andare ad ogni sorta di nefandezze contro gli abitanti di Addis Abeba. "Gli italiani girano armati di manganelli e di sbarre di ferro"- scriveva l'inviato del Corriere- "accoppano quanti indigeni si trovano per strada. Vengono fatti arresti in massa: mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di bastone come un gregge. In breve le strade attorno ai tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente".

Nel corso dell'occupazione italiana della Yugoslavia, dall'aprile 1941 all'8 settembre 1943, il fascismo istruì 8737 processi contro 13.196 imputati, comminando 83 condanne a morte, 412 ergastoli e 3.082 condanne a 30 anni di carcere. Le vittime della violenza tra civili e partigiani furono 7.000, più di 1.000 gli ostaggi fucilati, oltre 10.000 le case distrutte, circa 40.000 le persone deportate o confinate ( 1/8 della popolazione ) delle quali circa 7.000 decedute per fame, freddo, stenti e malattie nei campi di internamento dalmati e italiani.

Sulla persecuzione razziale, che oggi si preferisce definire "pulizia etnica" , Mussolini non aveva certo bisogno di maestri . L'11 giugno del 1941, a proposito della questione slovena, espresse in modo efficace la sua idea in merito: "Quando l'etnia non va d'accordo con la geografia, è l'etnia che deve muoversi: gli scambi di popolazione e l'esodo di parti di esse sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali". Non è un caso che nella civile Trieste fu attivo durante il Secondo conflitto mondiale il tristemente noto campo di sterminio della Risiera di San Saba, l'unico del nostro paese (migliaia d'ostaggi, politici, partigiani, ed ebrei "intrasportabili" eliminati e inceneriti nei forni) e che i nominativi di ben 883 italiani figurino in una lista redatta da una commissione Onu, nel 1947, come "criminali di guerra" per le efferatezze compiute contro la popolazione slava (L'ispettorato speciale di Ps, insediato a Trieste fin dal 1942, contro il quale si levò inutile la protesta dell'ordinario diocesano Santin- "Vi sono particolari che fanno inorridire, si torturavano anche donne incinte"- dopo l'8 settembre divenne il braccio destro della Gestapo e cooperò con il famigerato Einsatzkommando di Globcnik. Il massacratore degli ebrei polacchi).

Se ci siamo dilungati nell'elencare alcuni aspetti così poco onorevoli della storia patria, è perché nessuno è esente da quel subdolo virus che ci porta a considerare lo "straniero", il "diverso" una minaccia per la nostra incolumità, e non al contrario una risorsa, che può arricchirci e migliorarci. Ciò purtroppo è stato vero nel nostro passato, anche se non tutta la popolazione italiana fu responsabile dei crimini, ma quello che non fu possibile allora- l'Olocausto delle minoranze- per l'arretratezza e la scarsa fierezza razziale di una nazione di cafoni, potrebbe esserlo un domani. La bestia dell'intolleranza, figlia del razzismo e del suprematismo religioso, non ha preferenze di sorta, e se un tempo ha parlato il tedesco domani potrebbe parlare l'italiano, il veneto o il carinziano.


PAOLO PORTONE